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Il titolare dell’auto in leasing può chiedere il risarcimento danni in caso di incidente

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FONTE: CASSAZIONE.NET – NOTA DI ROBERTA MACCHIA

In caso di incidente stradale, il titolare di un’auto in leasing è legittimato a chiedere il risarcimento del danno subito.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 21011 del 12 ottobre 2010. A causa di una norma contenuta nel contratto di locazione finanziaria, che escludeva il diritto dell’utilizzatore a richiedere l’indennizzo in caso di incidente stradale, il Tribunale di Milano aveva dichiarato il difetto di
legittimazione per un uomo che, avendo subito danno dopo un sinistro, aveva presentato la relativa richiesta di risarcimento. La causa si era così spostata in Cassazione. Il giudice di legittimità, accogliendo le motivazioni del possessore dell’autovettura, che aveva dimostrato di aver subito un danno patrimoniale a seguito dell’incidente, ha affermato che, “in tema di legittimazione alla domanda di danni , deve ritenersi che il diritto al risarcimento può spettare anche a colui il quale, per circostanze contingenti, si trovi ad esercitare un potere soltanto materiale sulla cosa e, dal danneggiamento di questa, possa risentire un pregiudizio al suo patrimonio, indipendentemente dal diritto, reale o personale, che egli abbia all’esercizio di quel potere. È dunque tutelabile in sede risarcitoria anche la posizione di chi eserciti nei confronti dell’autovettura danneggiata in un stradale una situazione di possesso giuridicamente qualificabile come tale ai sensi dell’articolo 1140 c.c.”.

Roberta Macchia

12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Non ha diritto alla reversibilità l’ex coniuge che non percepiva l’assegno di divorzio

FONTE: CASSAZIONE.NET

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FONTE: CASSAZIONE.NET – NOTA DI ROBERTA MACCHIA

Non ha diritto alla pensione di reversibilità l’ex coniuge che non percepisce assegno divorzile, anche se è in possesso dei requisiti di legge per il riconoscimento del mantenimento.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 20999 del 12 ottobre 2010. Contro la decisione della Corte di Appello di Catanzaro che aveva respinto la richiesta per la pensione di reversibilità a seguito della morte dell’ex coniuge, una donna aveva presentato ricorso in Cassazione. Confermando le motivazioni del giudice di merito, che aveva basato la propria sentenza sulla mancata corresponsione alla donna di un assegno divorzile, la Suprema Corte ha affermato che, “ai fini del diritto del coniuge divorziato alla pensione di riversibilità, disciplinato dalla legge 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9, commi 2 e 3, cosí come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 13, il requisito della titolarità dell’assegno presuppone il riconoscimento giudiziale del cosiddetto assegno divorzile, a seguito della proposizione della relativa domanda, senza che possa attribuirsi rilevanza ad un’eventuale convenzione privata o ad erogazioni effettuate in linea di fatto”.

Roberta Macchia

 

 

12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Praticanti avvocati: la tassa per l’iscrizione al registro dei praticanti è dovuta solo quando si può in concreto esercitare

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FONTE: FISCO OGGI

Risoluzione del 11/10/2010 n. 103 – Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa

Consulenza giuridica – Tassa sulle concessioni Governative per l’iscrizione al registro speciale dei praticanti
Testo:

Con la richiesta di consulenza giuridica specificata in oggetto, concernente l’interpretazione dell’articolo 22 della tariffa allegata al DPR 26 ottobre 1972, n. 641, è stato esposto il seguente:

Quesito

Con nota prot. n. … del … 2009, la Direzione Regionale ha trasmesso un quesito del Consiglio dell’ordine degli avvocati di … con il quale sono stati chiesti chiarimenti sulle modalità di applicazione della tassa sulle concessioni governative relativamente all’iscrizione nel registro dei praticanti avvocati e l’inserimento nell’elenco dei praticanti abilitati.

In particolare, l’istante chiede di conoscere se la tassa sulle concessioni governative di cui all’articolo 22, punto 8, della tariffa allegata al DPR del 26 ottobre 1972, n. 641 sia dovuta dal laureato in giurisprudenza per l’iscrizione al Registro speciale dei Praticanti e dal praticante avvocato per l’ammissione al patrocinio di cui all’articolo 8, comma 2, del RDL n. 1578/1933 e all’articolo 7 della legge n. 479/1999.

Soluzione interpretativa prospettata dall’istante

In merito al quesito posto, l’ordine degli Avvocati di … “…ritiene non dovuta la tassa né per l’iscrizione dei laureati in giurisprudenza al Registro Speciale dei Praticanti né decorso un anno di pratica per l’ammissione”.

Parere della Direzione

Preliminarmente si osserva che il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 convertito con modificazioni dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36 – “ Legge professionale Forense”, all’articolo 1 stabilisce che “Nessuno può assumere il titolo, né esercitare le funzioni di avvocato o di procuratore se non è iscritto nell’albo professionale”.

“Per ogni tribunale civile e penale è costituito un albo di avvocati” (articolo 16).

L’articolo 8 del RDL citato prevede, inoltre, che “I laureati in giurisprudenza, che svolgono la pratica (…), sono iscritti, a domanda e previa certificazione del procuratore di cui frequentano lo studio, in un registro speciale tenuto dal consiglio dell’ordine degli avvocati e dei procuratori presso il tribunale nel cui circondario hanno la residenza, e sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio stesso.

I praticanti procuratori, dopo un anno dalla iscrizione nel registro di cui al primo comma, sono ammessi, per un periodo non superiore a sei anni, ad esercitare il patrocinio davanti ai tribunali del distretto nel quale è compreso l’ordine circondariale che ha la tenuta del registro suddetto, limitatamente ai procedimenti che, in base alle norme vigenti anteriormente alla data di efficacia del decreto legislativo di attuazione della legge 16 luglio 1997, n. 254, rientravano nelle competenze del pretore. Davanti ai medesimi tribunali e negli stessi limiti, in sede penale, essi possono essere nominati difensori d’ufficio, esercitare le funzioni di pubblico ministero e proporre dichiarazione di impugnazione sia come difensori sia come rappresentanti del pubblico ministero”.

Con riferimento all’applicazione della tassa sulle concessioni governative disciplinata dal DPR del 26 ottobre 1972, n. 641, l’articolo 22 della tariffa allegata allo stesso prevede il pagamento del tributo citato per l’“Esercizio di attività industriali o commerciali e di professioni, arti o mestieri …” nella misura di euro 168,00.

Ciò posto, dalla normativa sopra individuata emerge che durante il primo anno di iscrizione del soggetto, questi non è ammesso all’esercizio della professione forense che invece può essere svolta dai “… praticanti procuratori, dopo un anno dalla iscrizione nel registro…”, i quali possono “… essere nominati difensori d’ufficio, esercitare le funzioni di pubblico ministero e proporre dichiarazione di impugnazione sia come difensori sia come rappresentanti del pubblico ministero”.

Occorre determinare se all’attività svolta dal praticante procuratore possa essere attribuita la qualificazione di “professione”, sì da ritenere integrato il presupposto per l’applicazione della tassa sulle concessioni governative. La questione non risulta definita né in un senso né nell’altro dalla pronuncia della Consulta (ordinanza n. 163 del 2002) richiamata dall’Ordine istante.

Giova, peraltro, tener presente che ai sensi dell’articolo 2229 del codice civile – “esercizio delle professioni intellettuali”- “La legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria la iscrizione in appositi albi o elenchi…”, e che ai sensi dell’articolo 2231 c.c. “Quando l’esercizio di un’attività professionale è condizionato alla iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione…”. L’azione per il pagamento della retribuzione invece è prevista, ai sensi dell’articolo 8 del DM 8 aprile 2004, n. 127, per i praticanti avvocati autorizzati al patrocinio ai quali “… deve essere liquidata la metà degli onorari e dei diritti spettanti all’avvocato”.

Inoltre, giova rammentare che per l’esercizio del patrocinio e delle funzioni stabilite a norma di legge -seppure con le limitazioni evidenziate nel secondo comma dell’articolo 8 del R.D.L n. 1578 del 1933- solo dopo il secondo anno di iscrizione sussiste la condizione di “… aver prestato giuramento davanti al presidente del tribunale del circondario in cui il praticante procuratore è iscritto secondo la formula seguente: ‘Consapevole dell’alta dignità della professione forense , giuro di adempiere ai doveri ad essa inerenti e ai compiti che la legge mi affida con lealtà, onore e diligenza per i fini della giustizia’ ”.

Attesa anche la formula enunciata dal giuramento, che espressamente richiama l’esercizio di una professione, in questo caso forense, si esprime l’avviso che nel caso di iscrizione nell’albo in esame per gli anni successivi al primo, sussista esercizio di una professione con conseguente riconducibilità alle previsioni del citato articolo 22, punto 8, della tariffa allegata al DPR n. 641 del 1972. Pertanto, torna applicabile la tassa sulle concessioni governative nei modi e nelle misure evidenziate da tale norma.

Da quanto sopra discende che solo nel caso in cui l’iscrizione all’albo non abiliti all’esercizio di alcuna professione, come nell’ipotesi di iscrizione al primo anno nel registro speciale dei praticanti, di cui al comma 1 dell’articolo 8 del più volte richiamato RDL n. 1578 del 1933, la tassa sulle concessioni governative non risulta dovuta per carenza dei presupposti di applicazione della stessa.

***

Le Direzioni regionali e provinciali vigileranno affinché le istruzioni fornite e i principi enunciati con la presente risoluzione vengano puntualmente osservati dagli uffici.

12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Il tempo necessario per indossare gli abiti da lavoro va retribuito

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Corte Suprema di Cassazione

IV Sezione Lavoro

Sentenza n. 19358 del 10.09.2010

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Un gruppo di dipendenti della Unilever Italia s.r.l., con separati ricorsi poi riuniti, convenivano in giudizio la predetta società per chiedere la corresponsione dell’equivalente di venti minuti di retribuzione giornaliera per 45 settimane, a fronte del c.d. “tempo tuta”. Esponevano che per entrare nel perimetro aziendale dovevano transitare per un tornello apribile mediante tesserino magnetico di riconoscimento, indi percorrere cento metri ed accedere allo spogliatoio, ivi indossare gli indumenti di lavoro forniti dall’azienda, effettuare una seconda timbratura del tesserino prima dell’inizio del lavoro; al termine, dovevano effettuare una terza timbratura, accedere allo spogliatoio per lasciare gli abiti di servizio, passare una quarta volta il tesserino al tornello ed uscire. Deducevano che il tempo occorrente per le suddette operazioni costituiva una “messa a disposizione” delle proprie energie in favore del datore di lavoro, onde il tempo stesso doveva essere retribuito.

2. Si costituiva la società ed eccepiva che nel corso delle operazioni suddette i lavoratori rimanevano comunque liberi di disporre del proprio tempo e non erano sottoposti al potere datoriale, mentre soltanto con l’inizio effettivo del turno di lavoro essi erano sottoposti agli ordini ed alle indicazioni dei superiori gerarchici.

3. Il Tribunale respingeva la domanda attrice, ritenendo che il tempo necessario per la vestizione non costituisse tempo di lavoro retribuito. Proponevano appello gli attori. Si costituiva e si opponeva la Unilever, la quale dava atto della conciliazione intervenuta nei confronti di Protani Pasqualino. La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva le domande attrici nella misura – equitativamente determinata – del 50%.

Questa in sintesi la motivazione della sentenza di appello:

– come risulta dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 15734/2003, va considerato tempo di lavoro anche quello in cui il lavoratore si tiene a disposizione del datore di lavoro;

– quando l’obbligo di vestizione della divisa (Cass. n. 3763/1998) deve essere eseguito secondo pregnanti disposizioni del datore di lavoro circa il tempo ed il luogo dell’esecuzione, tale attività risulta “eterodiretta” e quindi dà diritto alla retribuzione;

– applicati tali principi, ne risulta che il tempo impiegato nella vestizione va considerato orario di lavoro;

– ciò risulta confermato dalla direttiva n. 104/1993 della Comunità Europea, recepita nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 66.2003 (utilizzata come indicazione interpretativa);

– poiché non è possibile individuare per ciascun attore i tempi effettivamente impiegati per indossare e dismettere gli abiti da lavoro, soccorre una valutazione equitativa ex art. 432 c.p.c.

4. Ha proposto ricorso per Cassazione la Unilever Italia s.r.l., deducendo cinque motivi. Gli attori sono rimasti intimati.

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 1 e 3 del r.d. n. 692.1923, del r.d. n. 1955.1923, 1 comma 1 del d.lgs. n. 66/2003, del d.P.R. n. 327/1980, del d.lgs. n. 155/1997, 12 delle Preleggi, 2094, 2104 c.c., 112 e segg. c.p.c., 2997 c.c.: la Corte di Appello ha violato la normativa inerente all’orario di lavoro ed il criterio dell’onere della prova, affermando apoditticamente che durante il tempo della vestizione il lavoratore sarebbe a disposizione del datore di lavoro. Viceversa detto tempo non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro. Il lavoratore non è a disposizione del datore di lavoro e non è nell’esercizio delle sue attività. Non vi è sinallagma contrattuale, ma solo un’attività preparatoria per la resa della prestazione.

6. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 2099 c.c., 36 Cost., omessa motivazione e mancata valutazione della disciplina di cui ai c.c.n.l. di settore 1991, 1995 e 1999, degli accordi aziendali, delle regole sull’interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e segg. c.p.c. Trascritte le norme contrattuali sull’orario di lavoro, deduce la ricorrente che la riduzione di orario pari ad un’ora settimanale ha avuto riguardo al lavoro effettivo.

7. Con il terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in fatto circa un punto decisivo della controversia, a sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., deducendo l’omesso esame degli accordi sindacali e la mancata applicazione della regola generale dell’assorbimento del trattamento di miglior favore riferibile anche alle pause contrattuali – violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 1362 segg. c.c. Ogni dipendente può entrare in fabbrica fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno e quando ha indossato l’abito da lavoro è libero di impiegare il tempo come desidera. Tali circostanze sono state capitolate come prova. Segue la trascrizione delle fonti contrattuali e si deduce che l’eventuale credito orario doveva essere compensato, fino a concorrenza, con le riduzioni di orario effettivo.

8. I motivi sopra riportati possono essere esaminati congiuntamente, in quanto tra loro strettamente connessi. Essi risultano infondati. La giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, dopo qualche incertezza, si è orientata nel senso che “Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito” Così Cass. n. 15734/2003.

9. Successivamente il principio è ripreso da Cass. n. 19273.2006: “Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito. (Nella specie, riguardante un periodo antecedente alla entrata in vigore del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66 di recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 200/34, la S.C. ha confermato la sentenza di merito secondo la quale il tempo della vestizione, facendo corpo con quello concernente la obbligazione principale ed attenendo un vincolo che caratterizza inevitabilmente la fase preparatoria, doveva ritenersi già remunerato dalla retribuzione ordinaria, senza necessità di distinguere la retribuzione a seconda dell’esistenza dell’obbligo di indossare o meno gli indumenti da lavoro)”.

10. Più recentemente il principio è confermato da Cass. n. 15492/2009: “L’art. 5 del contratto collettivo nazionale per i lavoratori delle industrie meccaniche private in data 8 giugno 1999 e del contratto collettivo nazionale delle aziende meccaniche pubbliche aderenti all’Intersind, nella parte in cui prevede che sono considerate ore di lavoro quelle di effettiva prestazione, deve essere interpretato nel senso che siano da ricomprendere nelle ore di lavoro effettivo, come tali da retribuire, anche le attività preparatorie o successive allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché eterodirette dal datore di lavoro, fra le quali deve ricomprendersi anche il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, qualora il datore di lavoro ne disciplini il tempo ed il luogo di esecuzione. Né può ritenersi incompatibile con tale interpretazione la disposizione contenuta nell’art. 5 citato secondo la quale le ore di lavoro sono contate con l’orologio dello stabilimento o reparto, posto che tale clausola non ha una funzione prescrittiva, ma ha natura meramente ordinatoria e regolativa, ed è destinata a cedere a fronte dell’eventuale ricomprensione nell’orario di lavoro di operazioni preparatorie e/o integrative della prestazione lavorativa che siano, rispettivamente, anteriori o posteriori alla timbratura dell’orologio marcatempo”.

11. La giurisprudenza sopra citata conferma che nel rapporto di lavoro deve distinguersi una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104, secondo comma, c.c.) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.

12. Con il quarto motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 414, 112, 115 c.p.c., 2797 c.c. e “decadenza”: la Corte di Appello ha violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, perché ha accolto una domanda diversa da quella proposta, vale a dire la corresponsione della retribuzione per tutto il tempo intermedio tra l’accesso al primo tornello e l’uscita definitiva dall’azienda.

13. Il quinto motivo del ricorso attiene alla violazione degli artt. 112, 414, 432 c.p.c., 1226 e 2697 c.c., vale a dire la quantificazione della domanda sulla base di un arbitrario esercizio dei poteri equitativi dinanzi ad una carente allegazione dei fatti contenuta nella domanda.

14. Detti due motivi, da esaminarsi anch’essi congiuntamente, sono infondati. Il giudice di merito non ha accolto una domanda diversa da quella formulata, ma ha attribuito un “quid minus” rispetto a quanto domandato dagli attori, finendo per considerare come tempo di lavoro o tempo a disposizione, eterodiretto, la metà del tempo mediamente impiegato per passare dal primo al secondo tornello e dal terzo al quarto. La relativa liquidazione è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce la norma processuale, con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato.

15. Non avendo la controparte svolto attività difensiva, non vi è luogo a provvedere sulle spese del grado.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso; nulla per le spese del processo di legittimità.

12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Nell’ipotesi di soccombenza soltanto di una delle parti in causa, il giudice deve motivare la compensazione totale o parziale delle spese

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Corte Suprema di cassazione

Sezione II

Ordinanza 27 settembre 2010, n. 20324

FATTO E DIRITTO

Il giudice di pace di Roma con sentenza 11 settembre 2008 ha accolto l’opposizione proposta il 14 settembre 2007 da Irene P. per impugnare la cartella esattoriale n. 097 2003 1053291214 000, notificatale da Equitalia Gerit s.p.a.; ha compensato le spese di lite.
L’opponente ha proposto ricorso per cassazione, notificato l’11 settembre 2009; Equitalia ha resistito con controricorso; il comune di Roma è rimasto intimato.

Il giudice relatore ha avviato la causa a decisione con il rito previsto per il procedimento in Camera di consiglio, ravvisando la manifesta fondatezza del ricorso.

Nella sentenza impugnata il giudicante ha qualificato il ricorso quale opposizione a un atto del procedimento di esecuzione e quindi ex art. 615 c.p.c. Ha infatti rilevato che l’opposizione aveva per oggetto il preavviso di fermo veicoli riferito alla cartella menzionata e ha evidenziato che il fermo auto “è misura cautelare e va collocato nell’ambito del procedimento di esecuzione promosso dal concessionario”. Ha inoltre ritenuto che l’opposizione era fondata, poiché nella cartella era stata omessa la indicazione del nome del responsabile del procedimento, con conseguente nullità del provvedimento impugnato.

Orbene, insegna la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 30201/2008; 11455/2007) che l’impugnazione di un provvedimento giurisdizionale deve essere proposta nelle forme previste dalla legge per la domanda così come è stata qualificata dal giudice (anche se tale qualificazione sia erronea). Ne consegue che, ove il giudice di merito qualifichi il ricorso propostogli come opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., il regime dei rimedi va individuato con riferimento a tale qualificazione.

Come ha esattamente osservato la relazione redatta ex art. 380-bis c.p.c., trattandosi nella specie di impugnazione avverso un provvedimento reso tra il 1° marzo 2006 e il 4 luglio 2009 la decisione non era impugnabile con l’appello, ma con il ricorso per cassazione, correttamente proposto con atto notificato l’11 settembre 2009. Si applicava infatti il regime previsto dall’art. 616 c.p.c., nel testo vigente a seguito della modifica intervenuta con la l. 24 febbraio 2006, n. 52, art. 14, comma 1, in forza del quale (ultimo inciso) la causa era decisa con sentenza non impugnabile, restando così esperibile solo il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, (cfr. Cass. 2043/2010).

La novella di cui alla l. 69 del 2009, entrata in vigore il 4 luglio 2009, ha soppresso tale ultimo inciso. Quanto al regime transitorio, l’art. 58, comma 2, ha stabilito che ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore della legge suddetta si applica l’art. 616 c.p.c., come modificato dalla legge stessa, e dunque il ripristinato regime del doppio grado di impugnazione.

Il caso in esame riguarda una controversia non più pendente in primo grado alla data del 4 luglio 2009, essendo stato deciso con sentenza del settembre 2008. Pendeva tuttavia il termine per l’impugnazione. È da ritenere, in accordo con la dottrina, che in tale ipotesi permanga la previsione dell’immediata ricorribilità per cassazione. Militano in tal senso più argomenti: in primo luogo, quello letterale, dovendosi escludere che il giudizio già deciso possa essere assimilato a un giudizio ancora pendente in primo grado. In secondo luogo, la illogicità di un duplice mutevole regime di impugnazione nei confronti dello stesso provvedimento, come si dovrebbe ipotizzare ove si ammettesse che, a partire dal 4 luglio 2009, un provvedimento già reso, prima ricorribile, fosse stato assoggettato ad appello.

In terzo luogo, va rilevato che si avrebbe una indebita applicazione retroattiva della legge processuale ove si pretendesse di applicare la legge sopravvenuta in relazione ad atti, le sentenze, che in base alla legge del tempo in cui erano stati posti in essere implicavano un diverso regime di impugnazione. Il principio tempus regit actum sembra essere più correttamente applicato, come si è sostenuto in dottrina, allorquando il regime impugnatorio venga ancorato alla normativa vigente al momento in cui la sentenza da impugnare sia venuta ad esistenza. (Cfr. utilmente Cass. 20414/2006; 5342/2009; 9940/2009).

Pertanto, in relazione alle sentenze che hanno deciso opposizioni all’esecuzione pubblicate tra il 1° marzo 2006 e il 4 luglio 2009, il regime impugnatorio applicabile resta quello della non impugnabilità; solo quelle pubblicate successivamente al 4 luglio sono soggette alla nuova regola della appellabilità, ai sensi del nuovo testo dell’art. 616 c.p.c.

L’unico motivo di ricorso, corredato da quesito ex art. 366-bis c.p.c., lamenta la illiceità della mancata liquidazione delle spese in favore della parte vincitrice “in assenza di reciproca soccombenza e di motivazione sulla concorrenza di giusti motivi”.

Il motivo è manifestamente fondato. L’art. 92 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, prevedeva infatti la possibilità di compensare le spese di lite solo in caso di reciproca soccombenza o di giusti motivi “esplicitamente indicati nella motivazione”.

Nel caso de quo non vi è stata reciproca soccombenza, essendo stata integralmente accolta l’opposizione e annullato l’atto amministrativo opposto. La sentenza impugnata non esplicita i giusti motivi per la compensazione, essendosi apoditticamente limitata ad esporre che essi “sussistono”.

Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso. La sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata, per nuovo esame in ordine alle spese, al giudice di pace di Roma. Questi si atterrà al seguente principio di diritto: Con riferimento ai giudizi disciplinati dall’art. 92 c.p.c., comma 2, così sostituito dalla l. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, come modificato dal d.l. n. 273/2005, art. 39-quater, convertito con modificazioni nella l. n. 51 del 2006, la compensazione delle spese può essere disposta, parzialmente o per intero, qualora non sussista reciproca soccombenza, solo previa esplicita indicazione dei giusti motivi ravvisati dal giudice di merito. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altro giudice di pace di Roma.


12 ottobre 2010 Posted by | Senza categoria | Lascia un commento

Tribunale di Torino 11.10.2010: irretroattività del principio enunciato da Cass. S.U. 19246/2010 (opposizione a decreto ingiuntivo)

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FONTE: ordineavvocati.catanzaro.it (segnalazione dell’Avv. Fabrizio Sigillò)

Tribunale di Torino – Ordinanza del 11-10-2010 (est. dott. Liberati)

Opposizione a decreto ingiuntivo – Costituzione dell’opponente – Dimezzamento automatico dei termini – Sezioni Unite 19246/2010 – Mutamento giurisprudenziale “innovativo” –  Cd. Overruling – Tutela della parte incorsa in errore incolpevole – Applicazione dell’art. 153 c.p.c. – Remissione in termini

Alla luce del principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), l’errore della parte che abbia fatto affidamento su una consolidata (al tempo della proposizione della opposizione e della costituzione in giudizio) giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, non può avere rilevanza preclusiva, sussistendo i presupposti per la rimessione in termini (art. 153 c.p.c. nel testo in vigore dal 4.7.2009), alla cui applicazione non osta la mancanza dell’istanza di parte, essendo conosciuta, per le ragioni evidenziate, la causa non imputabile (così, Cass., sez. II, ordinanze interlocutorie nn. 14627/2010, 15811/2010 depositate il 17.6.2010 ed il il 2.7.2010). Pertanto, la tardiva costituzione dell’opponente e la decadenza che ne è derivata sono riconducibili ad un causa non imputabile all’opponente stesso, con la conseguente sussistenza dei presupposti per rimettere in termini l’opponente, di guisa che la sua costituzione, effettuata oltre il suddetto termine dimidiato ma entro quello ordinario di dieci giorni, deve essere ritenuta tempestiva, e che quindi non occorre assegnare un ulteriore termine per provvedervi, trattandosi di attività già compiuta (nel caso di specie viene esclusa la retroattività del principio di diritto enunciato da Cass. civ. SS.UU. 9 settembre 2010 n. 19246 in materia di costituzione dell’opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ricorrendo allo strumento della remissione in termini).

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